venerdì 12 ottobre 2012

Intervista - Alessio Rutigliano

Alessio Rutigliano è una giovane promessa del panorama  sperimentale-cinematografico del paese che sembra una scarpa. L'idea di intervistarlo nasce con l'intento di capire e diffondere l'opera di un autore che lavora con le immagini in movimento trattandole spesso come se fossero fatte di pennellate utilizzando mezzi digitali ma cercando di trattare una materia assai concreta e fisica. Da quando il Preludio si è messo in contatto con Alessio il suo curriculum di partecipazioni a festival e collettive è andato aumentando: vi invitiamo a continuare a seguirlo magari anche attratti dalle anticipazioni che ha rilasciato per noi circa il suo progetto in cantiere


Artodocs Film Festival, St Petersburg
Lucca Film Festival 2012
Flexiff Festival X, Sydney
Sguardi Sonori '12, Mole Vanvitelliana
The Scientist Video, Ferrara


Six triptychs on the death of a marionette




Parlaci del tuo ultimo cortometraggio, da cosa è stato suscitato?

L'incontro con Collodi


Tutto è nato durante le riprese di Leaving Home. Tradurre in immagini la fiaba di Collodi è un'impresa contraddittoria, votata all'autodistr(a)zione. Il rifiuto del burattino verso qualsiasi forma di rituale iniziatico costituisce naturaliter una dialettica dell'impossibile: indipendentemente dal medium utilizzato, raccontare Pinocchio vuol dire precipitarsi nei buchi neri del linguaggio, sottrarsi alla rappresentazione. Fondamentale in questo senso è stato l'incontro con l'opera di Giorgio Manganelli. Senza il suo Pinocchio, un libro parallelo, probabilmente Six Triptychs non sarebbe mai nato. Manganelli è stato l'artefice inimitabile di un'operazione anni luce distante da qualsivoglia trasposizione cineletteraria: il suo Pinocchio è un'opera virale che si insinua tra le maglie della fiaba collodiana, senza cannibalizzarla.

Rapporto cinema-Collodi


Sin dai tempi del muto la storia del cinema ha inseguito invano il nostro burattino, uso a corruttori di ben altra statura. Soggetto maudit, come il Don Chisciotte di Welles, ha attratto nella sua orbita un numero incredibile di registi e sceneggiatori che, nell'illusione di poter far fuori la tradizione disneyana in un colpo solo, hanno aggiunto alla fiaba un dècor macabro che nulla ha a che vedere con la crudeltà collodiana, affine semmai alla crudeltà del teatro di Artaud. Ogni tentativo di trasposizione fedele al testo finisce inevitabilmente per ingabbiare Pinocchio nella prigione figurativo-linguistica da cui tenta di liberarsi.
Sono grato in questo senso all'Artodoc International Film Festival di San Pietroburgo diretto da Lev Naumov per avermi spinto a portare a termine una versione cinematografica del lavoro, inizialmente pensato come una videoinstallazione.




 Come hai lavorato per ottenere il prodotto finale?


Come per Leaving Home ho deciso di adoperare mezzi artigianali, non per insana diffidenza per il videoediting, quanto per mantenere un approccio il più possibile materico-gestuale.
Ho usato lenti grezze per sfocature non convenzionali, mentre per emulare un trattamento malerish dei fotogrammi in reframing ossessivo ho spesso rifilmato il footage, degradandolo, dando vita ad un continuo processo di erosione dei suoni e delle immagini, del corpo e del linguaggio. Se i primi trenta secondi ci mostrano uno spazio estremamente saturato, l'ultimo tableau presenta una rarefazione radicale del suono (I, the defeat of the Personal del geniale Igor Ballereau) e delle immagini: nel finale le Figure sembrano excise da tele nere, il contrasto tra il bianco e il nero si fa in estremo.




Alessio Rutigliano e Alessio Rutigliano.
Nei tuoi lavori ci sei tu, auto filmato: com'è il rapporto fra la tua immagine e la macchina da presa?


Mi ha sempre affascinato il tema dell'autoritratto, per questo motivo mi servo spesso di specchi e monitor, non solo per filmare me stesso. Nel prossimo lavoro gli sguardi di tutti i performer saranno mediati da una rete di specchi e monitor, sfiorando il parossismo. Quando Derrida prova a dare una definizione si sostituisce allo specchio, privando l'artista della sua immagine riflessa, accecandolo. Lo stesso accade nel cinema: il paventato sguardo in macchina è una pura illusione: nel momento in cui tra la macchina da presa e gli attori si frappone un monitor o uno specchio, la presenza temporanea di questo doppio rivela lo sguardo accecato dell'attore-performer, sempre cieco al compiersi del gesto.




Nel Pinocchio da te presentato ai festival di Lucca e San Pietroburgo non si percepisce la variabile della bugia, l'elemento simbolo del racconto di Collodi, un sentore avuto già dal titolo del primo capitolo: tragedia di un corpo. Da subito l'intero sviluppo del video è orientato verso tutto "l'umano" - inteso nel senso corporale -  della favola, a partire dal dissidio carne-legno. Pinocchio per te è una marionetta di carne o un bambino di legno?


Non date del bugiardo a Pinocchio! Ho sempre creduto che le reiterate menzogne del burattino, seppur preziose da un punto di vista psicoanalitico, fossero in realtà un espediente squisitamente letterario per detournare la fiaba, per dirla con Debord. Riuscireste ad immagine un kolossal hollywoodiano in cui il protagonista, non appena inizia a recitare, alias mentire, al pubblico in sala, finisca per confessare le sue retribuzioni, i contratti della troupe e così via? Ciak, si rifà ad infinitum... Sconcertati, i produttori varcherebbero la soglia dell'ufficio in lacrime, per poi fustigarsi con neghittosa discrezione nel buio complice di una sala cinematografica. Pinocchio è fuori dalla Storia, le sue bugie sono puro delirio glossolalico!
Agiografia paradossale, la fiaba di Collodi e la tragedia del corpo che si degrada a verbo: rifiuto di qualsiasi rituale iniziatico, negazione della Storia, impossibilità di un racconto della stessa.
E' piuttosto sul confine marionetta di carne-bambino di legno che si svolge la vicenda, o più precisamente, per dirla con Bacon, tra organico e inorganico.
Nel momento in cui Geppetto, prova a forgiare gli arti e gli occhi del burattino, ostinandosi a dare una forma compiuta e antropomorfa a una massa informe opera in realtà una mutilazione per contrario.




Hai citato Francis Bacon: come lo relazioni alla tua opera e soprattutto qual è l'influenza che ha avuto sul tuo modo di concepire l'immagine in movimento e sul concetto di narrazione?


Se l'ontologia negativa che permea Pinocchio è codificata nel linguaggio verbale, in quello visivo la faccenda si complica. Ed è qui che ci soccorre l'insegnamento di Francis Bacon. Rifiutare la gabbia figurativo-linguistica e allo stesso tempo la prigione astratta delle interpretazioni psicoanalitiche è stata la sua sfida nella pittura o, se vogliamo, alla pittura.
E' necessario disarticolare i nessi logici e mostrare, finalmente, il confine di indiscirnibilità tra l'uomo che soffre come una bestia e la bestia che soffre come un uomo. Pinocchio, con la sua continua stazione tra umano ed inorganico, si inscrive perfettamente nell'anti-iconografia baconiana. Se per il pittore e per l'illustratore è possibile di volta in volta ricreare questo limite con mezzi manuali - il trattamento a straccio o tecniche pittoriche di artisti più recenti come Jenny Saville - il film maker deve percorrere il percorso a rebours, ricorrendo ad espedienti che sabotino di continuo i normali meccanismi percettivi: tendere continuamente trappole al processo percettivo, ostacolare la visione.
Svelo ai lettori del Preludio un omaggio pittorico più personale, presente nel terzo trittico: scampato alla nascita, il burattino lascia Geppetto solo in balia del desiderio cieco di plasmare. Come nei rituali filmati da Jean Rouch in Les maitres fous, i fendenti del povero babbo nel vuoto si trasformano in una grottesca danza ritualistica svuotata di senso, maldestri esercizi di riabilitazione: il riferimento pittorico allude a questo caso a una serie di dipinti del 2003 di Pierluca Cetera, Parti di un Inferno.

Come ti sei avvicinato al cinema sperimentale?

Ho sempre considerato l'aggettivo sperimentale semplicemente come la qualità indispensabile di un classico. Scrittori come Cervantes, Petronio, Joyce, che troviamo oggi negli scaffali catalogati alla voce "Classici", sono stati grandissimi sperimentatori nel loro tempo. Anche nel cinema, dopotutto, accade lo stesso: opere di sperimentatori inguardabili come Paolo Gioli a distanza di poco più di trent'anni hanno assunto lo statuto di classici citate ossessivamente da registi come Guy Maddin. L'etichetta sperimentale a volte richiama alla mente spazi anestetizzati in cui tutto è possibile, nell'ora d'aria tra un film mainstream e l'altro, per poi tornare alla normalità.
Non ho mai creduto nella ghettizzazione del cinema sperimentale, nè in illusorie quote rosa. Ho scelto il video perchè credo che, nonostante tutte le sue deficienze e le sue goffaggini, sin dalla sua invenzione credo conservi una sorta di vocazione (autodistruttrice) per filmare l'impossibile, il non detto, tutto ciò che è sottinteso alla nostra percezione. Ricordate la formula kubrickiana: "Se potete pensarlo o scriverlo, filmatelo"? Detounatela! Suona meglio: "Se non può essere scritto o pensato, allora deve essere filmato".


Come hai lavorato per la musica del teaser di Preludio Senza Capitolo Primo?


L'elettronica mi ha permesso di lavorare sul suono come su di una massa scultorea, ricercando in questo caso una simbiosi tra il video in stop motion - tecnica corporea, oserei dire viscerale - e il corpo del suono. Non è un caso se il termine texture usato nella computer graphic è stato nella seconda metà del '900 adottato da musicisti come Gyorgy Ligeti, Penderecki, Stockhausen: esiste da sempre una sotterranea corrispondenza tra tecniche usate nella musica elettroacustica e nel video, negli ultimi sempre più palpabile negli anni grazie al lavoro di compositori come Fausto Romitelli, Igor Ballereau; tra le ultime generazioni segnalo le opere di Francesco Verunelli, Leone d'Argento 2010: in questa direzione desteranno non poche sorprese ai lettori di Preludio.